Immaginate uno sconosciuto viandante (o forse il termine “foresto” rende meglio l’idea) che, in un grigio ed uggioso pomeriggio d’inizio inverno, ingannato dal navigatore satellitare della propria automobile, giungesse casualmente al poggio di San Tomaso, sulle alture di Santa Maria del Campo.
Pensate allo stupore nell’intravedere, timidamente celata tra fronde d’olivi, l’austera silhouette di due robuste arcate gemelle piantate saldamente nel terreno, inevitabile a quel punto spegnere il motore e scendere a curiosare.
Il cancello è fortunatamente aperto, tutto attorno il silenzio, soltanto il fruscio delle foglie mosse dal vento mentre, procedendo oltre, i piedi affondando inevitabilmente nel terreno intriso d’umidità e ricoperto d’un morbido tappeto di verdissimo muschio.
La particolarissima struttura in stile romanico a due navate (risalente a prima del 1160 ed appartenente alle suore dell’Ordine Benedettino del monastero di San Tommaso di Genova) è ancora nettamente riconoscibile, mentre la totale mancanza di una delle facciate passa quasi inosservata, permettendo di apprezzare al meglio la monumentalità della struttura originaria.
Avanzando piano piano verso l’adiacente area boschiva, impossibile non ammirare l’imponente ed ultracentenario albero di rovere (“a rue” per gli indigeni), i cui rami spogli assomigliano all’artiglio di un drago dormiente.
Chissà quante persone avranno goduto del fresco di quelle ampie fronde in estate, e chissà quante allegre tavolate là sotto, quanti racconti, aneddoti, ricordi nel festeggiare un evento ben riuscito e progettando già quello a venire.
Ma ecco che, proprio di fronte a quel silente testimone del tempo che passa, una porticina s’apre nelle mura del Cenobio; avvicinandosi con fare circospetto sembra quasi di udire il bisbigliare dei fedeli e le litanie dei monaci, magari accompagnate dalle note dei Carmina Burana.
Sbirciando da quell’angolazione la suggestione è ancor più intensa, la colonna centrale che sorregge le due arcate appare ancor più imponente, il pavimento è un tappeto di foglie essiccate, sullo sfondo l’abside e l’acquasantiera scavata direttamente nella roccia, perfettamente integre; alzando lo sguardo al cielo sembra di intravedere le antiche volte, chiudendo gli occhi è un attimo lasciarsi trasportare in un immaginario viaggio a ritroso nel tempo, ed è davvero un gran peccato doversene andare da questo luogo magico, fatto di storia e ricordi, per molti un vero e proprio luogo del cuore.
Un particolare ringraziamento agli amici del Comitato Fuochi Santa Maria che, con passione e dedizione, si stanno prendendo cura di questi antichi ruderi, custodendone l’altissimo valore storico ed artistico e riportandoli all’antico, meritato, splendore.
Testo e foto di Stefano Podestà